Stefano Lo Cicero

LUIGI TALLARICO

Critico d’Arte

Stefano Lo Cicero a Palermo

Nel Palazzo Branciforte di Palermo si è svolta la rassegna antologica dal 1954 al 2004 del pittore e scultore Stefano Lo Cicero, col patrocinio della Presidenza della Regione Siciliana, della Provincia Regionale di Palermo, dell’assessorato ai Beni Culturali, dell’Assemblea Regionale Siciliana, del Comune di Palermo, del Banco di Sicilia, dell’Associazione Culturale “Ottagono Letterario” e della galleria “LiArt”.
La pratica d’arte di Lo Cicero è segnata dalla continuità e dalla differenza delle forme, legate al conflitto classico-anticlassico e perciò al rispetto della rappresentazione tradizionale e nello stesso tempo alla ricerca di una continua trasformazione morfologica di volti e di miti.
Infatti la sua forma plastica, attraverso le concrezioni e le ripetute estroflessioni, viene modificata, per cui i volti diventano bifronti e l’unità della struttura sculturale cambia aspetto e significato, e lascia affiorare mani e volti inquietanti che contraddicono l’impenetrabilità dei corpi.
Si può pertanto confermare che le trasformazioni della sua opera richiamano il concetto heideggeriano della “viaticità” e perciò dello svolgimento continuo della forma nello spazio, non come volume, ma come proiezione lirica dell’io, per dirla con il Goethe, espansione in onde sonore come il “suono delle campane”.
Da: Giornale “Secolo d’Italia” – Roma, maggio 2005

La sede dell’essere

Alla riapertura degli scenari del nuovo secolo, l’arte, come avviene nei momenti di transizione, è intenta a rivisitare i motivi che l’hanno accompagnata durante il non peregrino percorso del ‘900. E questo, nel tentativo di agganciare la “differenza” che darà vita al nuovo, nonostante la ripetizione di adusate visioni e scontati stilemi.
Anche la scultura del ‘900 ha avuto momenti segnati dalla differenza e/o dalla continuità, sia che la differenza si intenda aristotelicamente come non identità o come contraddizione nella dialettica hegeliana, sia che la continuità non contraddica l’identità dell’arte, come vuole l’estetica moderna.
Questa “ripetizione differente”, assunta dall’arte negli snodi della storia, è stata oggi riferita non tanto all’eterno conflitto con le categorie di classico-anticlassico, quanto all’ossequio verso il linguaggio plastico che, da Martini a Marini, da Boccioni a Fazzini, ha sanzionato ora l’appiombo e il tutto-tondo, ora il dinamismo spaziale e l’affermazione dei volumi negativi.
Ma l’ossequio alla plasticità non ha rinunciato alle soluzioni sintattiche di spazio-colore o, come si è detto dell’arte barocca, non ha rifiutato la “positura esaltata e terribile” della forma, più antiaccademica che anticlassica.
Intorno a questi elementi di ordine linguistico, la pratica culturale di Stefano Lo Cicero non affronta il “ripetere” delle forme arcaiche (la forma, come ha detto il Focillon, ha una sua vita autonoma), ma – pur usando i materiali e le tematiche della tradizione – guarda alla “differenza” al solo scopo di realizzare una forma culturale del tutto inedita. E questo perché la sua originalità è nella originarietà dei significati, che si ripetono e si rinnovano, mostrando la diversità, ossia la modernità, nell’accrescimento e nella continua metamorfosi a cui lo scultore sottopone l’opera.
È stato infatti osservato che l’importante non è ciò che la forma contiene, ma come si trasforma, per cui la “ripetizione differente” di Lo Cicero va cercata in due momenti, in quello del rispetto della rappresentazione dei volti e dei miti, secondo un’ottica tradizionale, e in quello della metamorfosi, che sottopone l’esterno a continue modificazioni.
Infatti, attraverso le tante concrezioni e le ripetute estroflessioni, i busti diventano bifronti e l’unità della struttura cambia forme e significati lasciando affiorare mani e volti inquietanti, senza corpo.
In questi frammenti di stravolta iconografia, si innesta un movimento che non è quello determinato dalla prospettiva tradizionale, ossia da una proiezione razionale del visibile, ma da un moto sincretico di elementi diversi, che costringe il dentro-fuori a non seguire i percorsi legati alla legge della impenetrabilità dei corpi.
Basta cambiare la posizione e il manufatto prende una consistenza sempre diversa, come avviene con le particelle atomiche che non sono sempre visibili allo stesso modo. Il mutamento porta il “cavallo fermo” tradizionale a trasformarsi nel “cavallo in movimento” di Boccioni, cioè in un’altra cosa.
Mentre la struttura-materia, per quanto rappresentata e definita, si trasforma in un corpo nuovo, in virtù dell’interpretazione del diverso momento che modifica (o completa) l’idea originaria, senza snaturarne la sostanza o togliere valore alle singole identità. Infatti la scultura cambia sembianza, come Proteo, trovando il nuovo nel processo di modificazione per cui la forma supera gli stilemi temporali e va incontro, attraverso le continue interpretazioni metamorfiche, al divenire del processo storico.
In questi processi mutevoli della storia, la raffigurazione dell’essere non si lascia condizionare dagli eventi e dai fatti en vogue perché di breve durata, se non del tutto deperibili.
Possiamo pertanto confermare che la metamorfosi dei corpi di Lo Cicero, allargando i limiti della pienezza plastica, richiama il concetto heideggeriano di “viaticità” e perciò di uno svolgimento continuo che presuppone l’esistenza nello spazio, non come fatto metrico o consequenziale ma come l’eco “suono delle campane”, di cui parlava Goethe, che crea e cerca spazio in continuazione.
È in questa continuità che muta la sede dell’essere a cui anela la scultura di Stefano Lo Cicero.
Da: Presentazione Scultura in Monografia “Rapsodie dell’anima” per Antologica, “Palazzo Branciforte” – Palermo, marzo 2005