Stefano Lo Cicero

GIUSEPPE NASILLO

Giornalista, Critico d’Arte

Stefano Lo Cicero – Riflessioni

Parlare di toccante sensibilità in Lo Cicero equivale ad evidenziare soltanto una parte di quello che è il suo mondo offerto ai propri simili, fruendo di immagini paesaggistico-figurative dai risvolti umani e sociali o valendosi di folgorazioni liriche, come è appunto accaduto in questa sua raccolta poetica, edita già qualche anno fa, nel 1976, ma che ci è venuta sotto gli occhi, purtroppo, soltanto di recente.
La poesia di Lo Cicero si delinea come ricorrente ricerca di voci – in sé e fuori di sé – in una sorta di interrogazione iterata, incisiva, ostinata, proiettata in una commensurazione etica condotta dall’animo sempre intento ed attento del poeta palermitano.
Alla base di ogni operazione artistico-culturale vanno ricercati un non precario convincimento e una fede radicata molto vicina a quella cui Lo Cicero indirizza la lirica di apertura, per potere levare il proprio pensiero e la propria dimensione emotiva a quegli altipiani creativi che non hanno bisogno di distaccarsi troppo dalla realtà di tutti i giorni per parlare di essa e perché essa ci appaia meno belluina, meno deviante, meno disumana.
Presenze visive di quadri realizzati dallo stesso autore si alternano a poesie scandite con un linguaggio cui fa onore la limpidezza colloquiale, nonché l’immediatezza dei concetti e la spontaneità di un dire che è conversazione lucidamente cosciente, è apertura di affetti e di sensazioni che non possono non suscitare attrazione e coinvolgimento nel lettore non distratto da effimere modulazioni, dalle coloriture materialistiche o, come sempre più avviene in questi tempi, dai risvolti inequivocabilmente stercorari.
Da: Periodico “Trentagiorni” – Torino, ottobre 1978

Stralcio

…La presenza, la consistenza di Stefano Lo Cicero nel campo dell’arte, si collocano egregiamente su due dimensioni parallele e complementari ad un tempo, quali sono quelle della pittura e della poesia che in pochissimi operatori estetici, come in Lo Cicero, si fondono e si integrano in un “synolon” di organicità e di assunto.
Il suo recente soggiorno a Torino, con l’interessante mostra personale presso la Galleria “Matep”, ha confermato ancora una volta come, per lui, il fare arte equivale a sfogliare l’interiorità della propria coscienza, per rendere evidenti “par la couleur” i silenzi dell’anima gravidi di memorie, di affetti, di emozioni, di tensioni, quasi miranti ad avvalorare il concetto che un’eterna attesa, un amaro catalogo di sconfitte è la nostra storia.
Con una tecnica in grado di carpire le più sottili aggregazioni cromatiche, con conseguenti suggestive campiture, Lo Cicero offre un sofferto sillabario di luoghi e di eventi dove non è difficile cogliere momenti e richiami autobiografici reperibili con la stessa cadenza nelle poesie che egli ha dato alle stampe qualche anno fa e che fanno da coreografia verbale alle proposte figurali affioranti dalle sue tele.
Eppure non ci scostiamo molto dal vero se affermiamo che in Lo Cicero la necessità di dialogare “par mots et par images” è una rigenerazione purificante, una esigenza catartica in virtù della quale egli può sottrarsi all’accerchiamento dell’anima in una visione esistenziale scandita come lacerante ballata nei versi di una sua lirica: “L’esistenza / ragnatela intessuta di spirali; / il tempo ne elabora le trame, / le distrugge, le rinnova / e le anime, a tratti legate / con nodi di fuoco, / non trovano scampo / ma bruciano anch’esse / nell’orrore del male, / nell’orrore del nulla.”
Ma la voce di Lo Cicero non si trincera in questa cubatura monovalente. Chi lo segue nelle forme e nelle parole vi scopre un’inquieta ricerca d’amore, una fede – sia pure tumultuosa – in accadimenti meno belluini, un bisogno di sentirsi uomo tra gli uomini che respinge il compiaciuto ottundimento della ragione ed il deliberato congelamento degli affetti. Lo Cicero è figlio del nostro tempo che ha saputo fare suo il distico di Luzi: “Vuoi darmi un nome, chiamami l’angoscia / chiamami la pazienza ed il dolore”; messaggio altamente umano, coscientemente fraterno ed esaltante…
Da: Rivista “Controcampo” – Torino, ottobre 1978