Stefano Lo Cicero

FRANCESCO CARBONE

Critico d’Arte

Nota critica

…Se è vero che l'opera scultorea è la risultante di un processo elaborativo e di manipolazione, inflitto con le tecnologie specifiche dell'umana fabbrilità alla materia inerte, è specularmente sostenibile che l’artista, strumento fondamentale di quel peculiare atto evolutivo, è l'athanor elettivo, all'interno del quale l'alchimia della forma può, indiscutibilmente, essere compiuta.
Ed il legame, forte, inscindibile e non prevaricabile, che si stabilisce fra la massa e l'artista, m'inducono ad affermare che entrambi costituiscono le incognite della medesima equazione. Sicché sia l'uno (l'artista), sia l'altra (la materia), con reciprocità giustificano le loro esistenze ed il loro fine. Sorretto dalla propria capacità immaginativa, l'artista imprime l'energia creativa alla materia, dopo aver conflittualizzato e mediato nella sua fucina interiore forze insostenibili e molteplici di ardua drammaticità.
E sin dal primo impatto, è questo che si coglie nell'opera di Stefano Lo Cicero: uno sforzo caparbiamente e costantemente rivolto verso la rivelazione di quella nascosta dimensione della mente, esito ultimo, mai definitivo, dell'opera artistica. Nel corso dei procedimenti, cosciente è l’attenzione posta dallo scultore nella risoluzione dell’indagine, tanto che si coglie, nell'esplorazione delle forme, un desiderio razionale teso all'estrapolazione di variabili metafisiche ed estetiche. Questo, ovviamente (sarebbe un guaio se così non fosse), presuppone sforzo sisifeo, dolore, angoscia, riproposizione dei temi, reiterazione delle scoperte, assonanza e consonanza delle forme, che sembrano non esaurirsi mai, all'interno di nuclei espressivi isolati e separati.
L'opera, imperniata dunque sullo sviluppo di tutte le coordinate del possibile, integrando la rarefazione e la dissoluzione delle forme, presumibilmente oniriche, con il dettaglio del particolare che sbuca violentemente dal caos creativo, coniuga plasticamente le latebre dell'immaginario invisibile con il bisogno interpretativo della realtà. E' percepibile in ogni tratto lo stimolo sensoriale che sovrasta il gioco delle masse, che codifica lo sviluppo organico dell'opera e ne estrinseca i significati più introspettivi senza mai scadere nella banalizzazione oggettivante, né tanto meno svilire nel vigore e nell'armonia del palpito vitale impressovi.
Nella loro complementarietà, le figure interposte tra scansioni ritmiche di vuoti e alternanze di dossi, vengono assorbite dal nucleo fondante della materia che le restituisce potenziate e rigenerate in nuove prospettive che mai cessano di agire nei loro dinamismi interiori. Senza mai indugiare nel superfluo, Lo Cicero perviene ad esiti di notevole interesse, attraverso un dettato plasticamente trasfigurante e misurato che abbraccia l'essenza paradigmatica degli insiemi, nell'evoluzione totalizzante del tutto tondo...
Da: Dattiloscritto firmato – Palermo, ottobre 1995

Tra ragione e sentimento

Con Stefano Lo Cicero si può recuperare una dimensione “remota” della pittura, e dunque uno spazio incontaminato ed essenziale dell’uomo. E non per volere ricominciare da zero, anche se i “contenuti” delle opere di Lo Cicero si prestano ad un approccio neo-antropologico del genere, ma solo perché la tela dell’artista palermitano è una superficie chiamata a configurare unicamente il “destino” e non il “progetto dell’uomo.
Un destino tuttavia che non presuppone la quiescenza o il rifiuto, ma che tenta l’ipotesi di un assetto esistenziale non riconducibile ad un semplice gesto di sopravvivenza “mentale”. Così, c’è di mezzo la “forma” e l’accumulo culturale e, quindi, l’inevitabile dilatazione (o sovrapposizione) delle componenti della “pittura”: il colore, la figura, le cose, la tecnica. La matrice. Ed ecco le impaginazioni nei quadri di Lo Cicero, il taglio della lettura: denso e partecipato, carico di una tensione elementare ed elaborata insieme, così come essa defluisce dalle aree più urgenti del sentimento e della ragione. Dalla memoria, che è ancora quella protesa a registrare l’evento, per riviverlo appunto, come destino senza progetto.
Sequenze solo apparentemente statiche: il colore infatti macera e si macera dall’interno, si predispone ad una pigmentazione serrata, all’annuncio di un impatto formale denso di riscatti indefiniti: forse il trasferimento del racconto, o della sua economia figurale, su un piano di comunicazione emozionale non più tramato dall’atteggiamento o dalla positura descrittiva, ubicazionale: noi – ora e qui. Noi e la nostra vicenda; noi “dentro” i guasti del mondo: la vita, la guerra, il terremoto, l’attesa. Perché questo è il filo conduttore delle tematiche di Lo Cicero, il suo modo, per contro, di porsi contemporaneamente in una sfera di valori che sono già la sintesi del Valore in assoluto. La scelta dell’artista. Da qui muove la caratterizzazione espressionistica delle opere di Lo Cicero, il loro valersi di un tempo e di uno spazio non convenzionali, ma proiettati nella dosatura di un continuo raffronto con la realtà, come dimensione cosciente di un esistere totale.
Da: Presentazione in catalogo, Galleria “Centro Ricerche Estetiche” – Catania, 1973